domenica 25 novembre 2012

“Lettera sulla felicità” di Epicuro


Epicuro nacque nel 341 a.C. a Samo e morì ad Atene nel 271 a.C. dove fondò una scuola, il Giardino, aperta anche alle donne e agli schiavi. L’epicureismo fu una dottrina molto diffusa dal IV secolo a.C. fino al II secolo d.C. Subì un rapido declino in quanto avversato dai Padri della Chiesa, ma fu rivalutato nuovamente in seguito in epoca Umanistica, durante il Rinascimento ed il periodo dell’Illuminismo.
Fu autore di numerosi scritti che sono andati in parte perduti e di cui restano solo alcuni frammenti. Sono giunte però tre epistole riportate da Diogene Laerzio: la “Lettera ad Erodoto”, la “Lettera a Meneceo” e la “Lettera a Pitocle”.

Proprio la “Lettera a Meneceo” conosciuta anche come “Lettera sulla felicità” viene riproposta da Einaudi con testo greco a fronte nella traduzione di Angelo Pellegrino (70 pagine – prezzo € 8,00). Nel volume ritroviamo inoltre le “Massime capitali”, il “Gnomologium Vaticanum Epicureum” e la “Vita di Epicuro” scritta da Diogene Laerzio.

Perché leggere questo libro? Direi soprattutto per riscoprire e comprendere meglio il pensiero di un filosofo che nel corso dei secoli è stato frainteso, odiato ed equivocato.
E perché no? Forse la dottrina epicurea potrebbe aiutarci a vivere più tranquillamente la vita di tutti i giorni…a conoscerci meglio, ad essere più felici, ad imparare ad accettare i nostri limiti, a non desiderare l’impossibile, ad allontanarci da tutto ciò che ci crea ansia, a prendere le distanze da tutto ciò che è superfluo e che non abbia come fine ultimo la nostra serenità.

Perché come recitano le prime righe dell’introduzione scritta dallo stesso Angelo Pellegrino:

“Epicuro e la giustezza del piacere”
Un pensiero per la vita, solo per la vita.
Un filosofo veramente amico che da ventitre secoli non cessa di dirci che non può esistere autentica felicità senza il piacere.
Un pensiero che, contrariamente a tanti altri, non ha mai fatto e non può fare male a nessuno, che inviata ad amare se stessi e soprattutto a rispettarsi, azione primaria per non danneggiare i propri simili.

Davvero interessante poi la seconda parte dell’introduzione “Fortuna d’una traduzione” in cui Angelo Pellegrino ci racconta la nascita del suo progetto, la storia e la fortuna editoriale della prima edizione della sua traduzione, nelle edizioni dei volumetti da 1000 lire, e del suo amore per Epicuro e la dottrina epicurea.

da “Lettera sulla felicità”

Meneceo,
Mai si è troppo giovani, o troppo vecchi per la conoscenza della felicità. A qualsiasi età è bello occuparsi del benessere dell’animo nostro (…) Cerchiamo di conoscere allora le cose che fanno la felicità, perché quando essa c’è tutto abbiamo.

da “Massime capitali”

VIII - Di per sé nessun piacere è male, ma bisogna stare attenti a certi modi di procurarlo, che arrecano più tormenti che piacere.

XVII – Il giusto è un tranquillo, l’ingiusto un agitatore perenne.

XXVII – Il bene più grande che la conoscenza ci offre per la felicità di tutta la vita è acquistare l’amicizia.

XXXI – Diritto di natura significa patto fondato sull’utile reciproco, per non fare male agli altri e non riceverne.

Come definirei questo libro? Un libro da tenere a portata di mano, magari sul comodino e da rileggere ogni tanto…

mercoledì 14 novembre 2012

The Keats- Shelley House


Quello di oggi sarà un post un po’ diverso dal solito perché vorrei raccontarvi di una giornata davvero speciale. Spesso le emozioni forti non hanno voce e così ora mi ritrovo a fissare lo schermo cercando disperatamente di riuscire a trovare le parole più adatte per descrivere quel senso di agitazione misto a commozione ed ansia che mi hanno colta appena giunta al n. 26 di Piazza di Spagna.

Davanti a quel grande portone marrone, sovrastato dalla targa in marmo che recita “Keats Shelley Memorial House acquired and dedicated to the memory of the two poets by their admires in England and America”, la caotica Piazza di Spagna mi sembra ad un tratto un luogo silenzioso e solitario. Improvvisamente ci siamo solo io ed “il portone”: mentre lo apro chiedendomi quante volte Keats abbia fatto quello stesso gesto, comprendo che quella che sto per varcare non è semplicemente la soglia di una casa, ma la soglia del tempo stesso. Mentre salgo le strette scale di marmo bianco, circondata dalle figure dei personaggi del romanticismo inglese, cresce l’emozione al pensiero che sto camminando dove personaggi quali Byron, Shelley, Severn hanno camminato due secoli fa e sono sempre più affascinata dall’idea che di lì a pochissimo attraverserò quelle stesse stanze dove ha trascorso gli ultimi mesi della sua vita uno dei poeti da me più amati, John Keats.



Al primo piano, alla biglietteria, mi accoglie una ragazza inglese molto gentile che, in un italiano stentato, mi consegna il ticket e mi accompagna in una saletta adiacente dove posso vedere un interessante video della durata di una quindicina di minuti, tutto rigorosamente in inglese, sulle vite di Byron, Keats e Shelley e sulla storia della Memorial House.



La Keats-Shelley House è, come dice il nome stesso, una “casa museo”. Non essendo su suolo britannico non può ricevere sovvenzioni pubbliche dal Regno Unito. Per sopravvivere pertanto si affida alla generosità dei suoi sostenitori, agli ingressi (il biglietto è davvero economico, costa solo € 4,50) ed alla vendita di alcuni articoli per la maggior parte libri e gadget di notevole qualità venduti a prezzi veramente congrui.

Finito il filmato è giunta l’ora di affrontare la salita degli ultimi gradini per entrare nel cuore stesso della casa! La prima stanza è una stanza immensa, una vera e propria biblioteca, con le pareti di legno scuro ricoperte interamente dai libri. Il museo ospita una delle più importanti biblioteche della letteratura romantica oltre ad un’esclusiva collezione di manoscritti quadri ed oggetti memorabili. Tutto, dall’arredamento ai tendaggi, è curato alla perfezione sin nei minimi particolari. Qui possiamo ammirare un ritratto di Percy Bysshe Shelley mentre compone “ Il Prometeo liberato” alle Terme di Caracalla, un bellissimo dipinto di Joseph Severn eseguito nel 1845. Da questa sala si accede ad una stanza più piccola dove sono conservati oggetti legati a Byron, a Shelley e ai membri del loro circolo. Da questo ambiente che in realtà all’epoca era utilizzato dalla padrona di casa, la signora Angeletti, come cucina si accede ad una deliziosa piccola terrazza che si affaccia su Trinità dei Monti. E qui di nuovo il batticuore pensando che quasi due secoli prima Keats osservava quello stesso panorama che sto ammirando io! Sempre dal salone principale si accede ad altre due stanze: la prima che incontriamo è la stanza di Severn anch’essa piena di manoscritti, miniature, reliquie e prime edizioni di libri, tra cui una copia della prima edizione dell’Endymion di John Keats. Dalla stanza di Severn si accede direttamente alla stanza di Keats, dove il poeta spirò il 23 febbraio dell’anno 1821. Che emozione! La finestra della stanza dà su Piazza di Spagna e viene spontaneo chiedersi quante volte Keats seduto allo scrittoio abbia osservato la gente in strada, quante volte abbia sospirato immaginando magari di poter un giorno passeggiare in quella stessa piazza e per le altre strade della città eterna con la sua amata Fanny Brawne…purtroppo ogni speranza, ogni sogno gli sarà precluso, la morte lo coglierà, infatti, a soli 25 anni.

Questa la descrizione della stanza che si può leggere nella guida del museo che si può acquistare a € 3,50 direttamente alla biglietteria sia in italiano che in inglese:

Secondo la legge vaticana, dopo la morte di Keats tutto quanto era contenuto in questa stanza, incluso il letto e le tende, doveva essere bruciato. Si riteneva allora, erroneamente, che questo avrebbe impedito la diffusione dell’infezione. Il caminetto tuttavia, è originale ed è qui che Joseph Severn riscaldava il cibo per Keasts. I rumori che Keats poteva udire dal suo letto sono simili a quelli che sentiamo oggi – l’acqua che scorre nella Barcaccia o lo scalpitio degli zoccoli dei cavalli sui sampietrini.
L’ultima acquisizione di rilievo alla collezione del Museo è del 2003 (centenario della fondazione della Keats-Shelley Memorial Association): è il letto collocato nella stanza, che risale al 1820 circa, in noce italiana, di forma semplice ma armoniosa, un classico letto “a barca”.

All’interno di una teca nella stanza di Keats è conservata la lettera che Severn scrisse a Charles Brown il giorno dopo la sepoltura di Keats nella quale ricorda gli ultimi momenti del poeta:

“Se n’è andato – è morto nel modo più tranquillo… il 23 (venerdì) alle quattro e mezzo si approssimò la morte – “Severn – S – tirami su perché sto morendo – morirò facilmente – non ti spaventare – grazie a Dio ci siamo”. – Lo tirai su tra le mie braccia, e il catarro sembrava ribollirgli nella gola – e andò aumentando fino alle 11 di notte, quando gradualmente scivolò nella morte – così quietamente che pensai dormisse…”

Si è conclusa così la visita ad uno dei musei più emozionanti che io abbia mai visitato, un’esperienza bellissima e commovente. Se amate ed adorate Keats quanto me sarà senza dubbio un’esperienza unica. Se amate la poesia romantica di Shelley, Byron e Keats dovete visitarlo assolutamente, non perdete l’occasione di entrare nella storia del romanticismo inglese e trascorre un’oretta con i suoi protagonisti.. .

Non sono mai stata molto brava con le parole, so bene di non essere stata in grado si trasmettervi nemmeno una piccolissima parte delle emozioni che ho provato, ma spero di essere riuscita almeno ad incuriosirvi un poco…
Per chi volesse dare un’occhiata virtuale alla Keats-Shelley House lascio qui il link della pagina ufficiale del museo.


A thing of beauty is a joy for ever:
Its loveliness increases; it will never
Pass into nothingness; but still will keep
A bower quiet for us, and a sleep
Full of sweet dreams, and health, and quiet breathing.
  

Una cosa bella è una gioia per sempre:
cresce di grazia; mai passerà
nel nulla; ma sempre terrà
una silente pergola per noi, e un sonno
pieno di dolci sogni, e salute, e quieto fiato.

 (da "Endymion" John Keats)

sabato 3 novembre 2012

“La donna in bianco” di Wilkie Collins


Wilkie Collins (1824 – 1889) è conosciuto come il padre del romanzo poliziesco grazie soprattutto alla sua capacità di narrare storie di delitti e di misteri avvalendosi di strutture narrative intricate e ben congegnate.
Il padre di Wilkie Collins, un noto pittore paesaggista dell’epoca, avrebbe voluto per il figlio una carriera ecclesiastica. Lo scrittore però, per nulla incline a seguire i desideri paterni, preferì intraprendere una carriera commerciale, dedicandosi nel frattempo a scrivere articoli e brevi racconti pubblicati con uno pseudonimo. In seguito, resosi conto di non essere tagliato al commercio del tè, decise d’accordo con il padre di dedicarsi allo studio della legge e riuscì ad essere ammesso ad esercitare la professione forense. Neppure questa però si rivelò essere la sua vera strada. Approdò così alla sua vera vocazione: la scrittura, grazie alla quale le conoscenze legali apprese trovarono una maggiore e creativa applicazione.
Un importante evento per la sua carriera letteraria fu la conoscenza di Dickens, avvenuta nel 1851, con il quale iniziò non solo una vera e sincera amicizia ma anche una collaborazione lavorativa. Wilkie Collins collaborò attivamente alle riviste di Dickens “Household Words” e “All the Year Round” e proprio su quest’ultima rivista il 26 novembre 1859 uscì la prima puntata de “La donna in bianco”. Fin dalla prima uscita il romanzo si rivelò un successo; non solo vi fu un indubbio aumento di tiratura della rivista ma a Londra si scatenò una vera e propria mania, insomma la pubblicazione del romanzo divenne un vero fenomeno commerciale. Le vicende narrate ne “La donna in bianco” divennero argomento di discussione per le strade e nei salotti; si arrivò persino a dedicare profumi alla misteriosa “dama” e ci furono addirittura abiti, balli e serate a tema dedicate a lei.
Il romanzo prende avvio dall’incontro di Mr Hartright, un insegnante di disegno, con una misteriosa donna vestita di bianco della quale solo più tardi si verrà a sapere che si chiama Anne Catherick e che è fuggita dal manicomio. Walter Hartright nel frattempo viene assunto per insegnare l’arte del disegno a due sorelle (solo da parte di madre) Mariam Halcombe, donna intelligente ed energica, e Laura Fairle, donna angelica e delicata.
Non voglio anticipare nulla di più perché è un libro ricco di colpi di scena che si susseguono ripetutamente. “La donna in bianco” è un romanzo carico di suspense, non esiste un “io onnisciente” ma i fatti sono riportati di volta in volta dai vari personaggi come fossero testimonianze di un processo. Proprio attraverso i vari punti di vista dei protagonisti e dei testimoni dei fatti il lettore partecipa al gioco di ricostruzione del complotto ordito. Un complotto che vede protagonista un’eroina che, per affermare e rivendicare i propri diritti ereditari e sociali, è costretta ad opporsi ai pregiudizi ed alle leggi dell’epoca vittoriana oltre a combattere contro personaggi malvagi e pericolosi.
Non mancano inoltre gli elementi tipici della letteratura gotica come la misteriosa apparizione della donna vestita di bianco che potrebbe sembrare un’apparizione ultraterrena oltre alle atmosfere cupe ed alle situazioni inquietanti, dovute spesso alla capacità dell’autore di giocare sul “tema del doppio”.
Non è un romanzo brevissimo, sono circa 690 pagine, ma non fatevi spaventare dalla mole perché “La donna in bianco” è a tutti gli effetti un libro che si legge tutto d’un fiato grazie ad una trama avvincente e ad una scrittura coinvolgente che tiene il lettore incollato fino all’ultima pagina. Assolutamente consigliata la lettura.

Bigliografia:
"La donna in bianco" di Wilkie Collins, 2012 Fazi Editore, introduzione di Paolo Ruffilli - traduzione Stefano Tummolini

martedì 16 ottobre 2012

“Poesie” di Emily Dickinson (1830 – 1886)


Emily Dickinson, considerata la più grande poetessa statunitense nonché uno tra i maggiori lirici del XIX secolo, nacque nel 1830 ad Amherst nel Massachusetts dove morì nel 1886.
Trascorse tutta la vita nella casa paterna allontanandosene raramente e solo per brevi soggiorni: Washington, Filadelfia, Boston e Cambridge.
Non seguì un corso di studi regolare e la sua educazione ufficiale si interruppe dopo un solo anno di college, quando aveva appena 17 anni. Nonostante questo, vivendo in un ambiente familiare dalle forti pressioni culturali e religiose, la Dickinson divenne un’assidua e regolare lettrice di autori contemporanei, poeti ed intellettuali, non tralasciando comunque di coltivare la sua passione per gli autori del Seicento in particolare dei Metafisici né la lettura delle sacre scritture. Frequenti sono infatti i riferimenti nelle sue poesie a personaggi e vicende della Bibbia, ma anche alle opere di Shakespeare e di Emily Bronte, una delle sue autrici preferite.
Si innamorò di un pastore, ma il suo fu un amore esclusivamente platonico; visse isolata e gli ultimi anni li trascorse ritirata nelle sue stanze; la sua fu un’esistenza solitaria ad eccezione della corrispondenza epistolare con i pochi amici e delle rare visite nel vicinato.
Emily Dickinson scrisse 1775 poesie, ma solo sette di esse furono pubblicate durante la sua vita. L’edizione delle sue opere apparve postuma, in varie raccolte, fino alla prima e completa edizione critica del 1955.
Il libro edito nel 2004 da Mondatori con testo originale a fronte a cura di Massimo Bacigalupo, (edizione rivista e aggiornata della prima edizione del 1995) riporta le poesie della Dickinson suddivise per anni: una sorta di diario in versi con cui la poetessa racconta il lento scorrere dei giorni, i momenti di vita quotidiana, le gioie e i dolori, le speranze e gli affanni, l’amore per la natura e l’alternarsi delle stagioni. Non mancano inoltre racconti di fatti che coinvolgono la società del tempo in cui Emily Dickinson visse, dobbiamo infatti ricordare che molte poesie furono scritte proprio durante gli anni della guerra di secessione. I grandi temi affrontati nella poesia della Dickinson possono essere così riassunti: amore, morte, natura ed eternità.
Da sottolineare nell’edizione “Poesie” (Mondatori, Cles 2004) la breve ma interessante e coinvolgente postfazione di Natalia Ginzburg dal titolo “Il paese della Dickinson” tratta da “Mai devi domandarmi” (Einaudi, Torino 2002).

Per chi volesse dare uno sguardo al museo di Emily Dickinson ad Amherst, ecco qui il link.


189

Che piccola cosa è piangere –
che breve cosa è sospirare –
eppure – di venti – così
noi uomini e donne moriamo!



342

Sarà estate – prima o poi.
Donne – con parasoli –
uomini a passeggio – canne d’India –
e bambine – con bambole –
coloreranno il paesaggio pallido –
come un luminoso mazzo di fiori –
per quanto sommerso di pario –
il paese di stenda – oggi –

I lillà – piegati da molti anni –
dondoleranno carichi di violetto –
le api – non disprezzeranno il motivo –
che i loro avi – cantarono –

La rosa selvatica – arrosserà lo stagno –
l’aster – sulla collina
detterà – la sua moda perenne –
e le genziane pasquali – crinoline –

finché l’estate ripiegherà il suo miracolo –
come una donna la gonna –
o i sacerdoti – ripongono i simboli –
quando il sacramento – è finito –



747

Cadde tanto in basso – nella mia considerazione
che lo udii battere in terra –
e andare a pezzi sulle pietre
in fondo alla mia mente –

ma rimproverai la sorte che lo abbatté – meno
di quanto denunciai me stessa,
per aver tenuto oggetti placcati
sulla mensola degli argenti –

lunedì 1 ottobre 2012

“Il re e il suo giullare” di Margaret George



Chi era Enrico VIII? L’immagine più irriverente che tutti hanno di Enrico VIII è quella di un grasso monarca che addenta una succulenta coscia di pollo. Tutti o quasi ricordano che si sposò per ben sei volte, condannò a morte per decapitazione due delle sue mogli e ne ripudiò altre tre. Molti ricordano anche che fu colui che promosse lo scisma anglicano proclamandosi capo della Chiesa inglese e che fu il padre della grande Elisabetta I, la figlia di Anna Bolena, una dei sovrani più popolari della storia inglese, che regnò dal 1558 al 1603.

 “Il re e il suo giullare – l’autobiografia di Enrico VIII annotata dal buffone di corte Will Somers” il libro di Margaret George è sì una biografia romanzata di Enrico VIII Tudor (1491 – 1547), ma nonostante siano presenti numerosi elementi di fantasia ed invenzione, è comunque nell'insieme un romanzo storicamente attendibile e molto ben documentato.
A dispetto della mole che può spaventare, siamo intorno alle 940 pagine, il libro è veramente ben scritto, la lettura è scorrevole ed interessante.
Il romanzo affronta il racconto della vita di Enrico VIII dalla sua nascita, narrandoci la sua infanzia, i rapporti con i genitori, il fratello e le sorelle, i suoi studi inizialmente indirizzati alla carriera ecclesiastica.
Il libro ci presenta un nuovo ed inedito Enrico VIII, non più solo un sovrano dispotico e sanguinario, ma un uomo con le sue paure e i suoi timori, le sue passioni e i suoi desideri. Un uomo che nonostante la sua continua ricerca di amore ed amicizia, è spesso un uomo solo come sono soliti esserlo gli uomini di potere. Un uomo che vive nel timore di essere l’eterno secondo: non solo secondo per successione al trono, ma anche nell’amore del padre che gli preferiva il fratello maggiore Arturo.
Un sovrano ansioso e preoccupato di morire senza lasciare un’impronta di sé e di essere dimenticato dai posteri.
Amori e tradimenti, pettegolezzi, matrimoni, lotte dinastiche, vittorie e sconfitte sono al centro di questo romanzo che, coinvolgendo il lettore fin dalle prime pagine, fa rivivere gli splendori e i fasti, le cospirazioni e gli intrighi alla corte del più famoso monarca d’Inghilterra.
Tra storia e finzione Margaret George ci regala un’interessante analisi psicologica di Enrico VIII, non tralasciando di approfondire i suoi rapporti con altri personaggi non solo politici dell’epoca e tracciando anche un quadro preciso dei rapporti che legavano Enrico alle sue sorelle, Maria e Margherita.
Un romanzo storico davvero ben strutturato, da leggere assolutamente soprattutto se appassionati del genere.


Perché nessun uomo dovrebbe essere felice di servirne un altro senza la speranza di un riconoscimento. Perché tutto è temporaneo, e questo monito della natura passeggera delle cose mi rattrista.


giovedì 20 settembre 2012

“Testamento” di Kritos Athanasulis

Non voglio che tu sia lo zimbello del mondo.
Ti lascio il sole che lasciò mio padre
a me. Le stelle brilleranno uguali, e uguali
t’indurranno le notti a dolce sonno,
il mare t’empirà di sogni. Ti lascio
il mio sorriso amareggiato: fanne scialo,
ma non tradirmi. Il mondo è povero
oggi. S’è tanto insanguinato questo mondo
ed è rimasto povero. Diventa ricco tu
guadagnando l’amore del mondo.
Ti lascio la mia lotta incompiuta
e l’arma con la canna arroventata.
Non l’appendere al muro. Il mondo ne ha bisogno.
Ti lascio il mio cordoglio. Tanta pena
vinta nelle battaglie del mio tempo.
E ricorda. Quest’ordine ti lascio.
Ricordare vuol dire non morire.
Non dire mai che sono stato indegno, che
disperazione m’ha portato avanti e son rimasto
indietro, al di qua della trincea.
Ho gridato, gridato mille e mille volte no,
ma soffiava un gran vento, e pioggia, e grandine:
hanno sepolto la mia voce. Ti lascio
la mia storia vergata con la mano
d’una qualche speranza. A te finirla.
Ti lascio i simulacri degli eroi
con le mani mozzate, ragazzi che non fecero a tempo
ad assumere austera forma d’uomo,
madri vestite di bruno, fanciulle violentate.
Ti lascio la memoria di Belsen e di Auschwitz.
Fa’ presto a farti grande. Nutri bene
il tuo gracile cuore con la carne
della pace del mondo, ragazzo, ragazzo.
Impara che milioni di fratelli innocenti
svanirono d’un tratto nelle nevi gelate
in una tomba comune e spregiata.
Si chiamano nemici: già! i nemici dell’odio.
Ti lascio l’indirizzo della tomba
perché tu vada a leggere l’epigrafe.
Ti lascio accampamenti
d’una città con tanti prigionieri:
dicono sempre sì, ma dentro loro mugghia
l’imprigionato no dell’uomo libero.
Anch’io sono di quelli che dicono, di fuori,
il sì della necessità, ma nutro, dentro, il no.
Così è stato il mio tempo. Gira l’occhio
dolce al nostro crepuscolo amaro.
Il pane è fatto pietra, l’acqua fango,
la verità un uccello che non canta.
È questo che ti lascio. Io conquistai il coraggio
d’essere fiero. Sfòrzati di vivere.
Salta il fosso da solo e fatti libero.
Attendo nuove. È questo che ti lascio.
(Traduzione di Filippo Maria Pontani)

Ho scoperto questa poesia per caso in una sera d’estate. Negli ultimi mesi Rai1 mandava in onda, subito dopo il TG, il programma “Techetechetè”, nuova versione del precedente “Da da da”, nel quale venivano trasmessi spezzoni della TV di ieri e di oggi. Ebbene quella sera uno dei protagonisti era Vittorio Gassman e tra i vari spezzoni che lo riguardavano uno in particolare mi ha colpita: la lettura di “Testamento” di Athanasulis. Un momento davvero intenso ed emozionante sia per la bravura di Vittorio Gassman sia per l’intensità del testo.
Ho fatto allora qualche ricerca su questo poeta purtroppo con scarsi risultati. Mi spiace soprattutto non aver trovato il video in cui Gassman recita la poesia, mi farebbe davvero piacere poterlo rivedere. 


Kritos Athanasulis (Tripoli, Arcadia 1917 – Atene 1979) è un poeta greco molto attento alle problematiche sociali e civili. Visse momenti difficili durante l’occupazione della Grecia da parte dei nazisti (1941 – 1944), periodo durante il quale si sviluppò una letteratura clandestina molto impegnata, e successivamente durante la dittatura che, dopo il 1967, costrinse al silenzio o all’esilio molti intellettuali suoi contemporanei.
In “Testamento”, pubblicato per la prima volta in Italia nella raccolta “Due uomini dentro di me” (1957), Athanasulis medita sulle dolorose esperienze vissute, sull’amarezza e sulla disperazione che il ricordo degli orrori della guerra portano inevitabilmente con sé, ma parla anche di speranza e di libertà, di quella libertà che è un valore assoluto e prioritario nella vita di ogni essere umano.

lunedì 17 settembre 2012

“Lo scandalo della stagione” di Sophie Gee


Ci troviamo in Inghilterra sotto il regno della regina Anna, sovrana di fede protestante ma discendente Stuart. I contrasti religiosi sembrano ormai superati, nonostante qualche Giacobita trami ancora nell’ombra per portare sul trono il cattolico Giacomo, al momento in esilio in Francia. Alla fine dell’estate dell’anno 1711, fervono i preparativi per la nuova season londinese, che si preannuncia ricca di divertimenti, feste in maschera, balli e nuove conoscenze: il futuro di molte giovani donne dipenderà dalla loro capacità di saper giocare bene le proprie carte (patrimonio, bellezza, astuzia…) per riuscire ad accalappiare un marito.
Sophia Gee prende spunto dal poema eroicomico “Il ricciolo rapito” (The rape of the lock) opera di Alexander Pope (1668 - 1744) pubblicata nel 1712 (versione definitiva pubblicata nel 1714) nel quale il poeta, facendo uso del “distico eroico” (metro tipico dello stile epico), narra le vicende della bella Arabella Fermor (Belinda nella poesia) e di Lord Petre. La vicenda, come si evince dal titolo stesso, è fondata sul ratto di una ciocca di capelli, o per essere più precisi di un ricciolo, che Lord Petre riesce a tagliare alla fanciulla. Belinda tenta di farsi rendere quanto le è stato rubato a tradimento, ma inutilmente; la ciocca di capelli, infatti, vola via nell’aria e si trasforma in una stella. Arabella Fermor e Lord Petre sono al centro dello scandalo della stagione raccontato nel libro della Gee. Tra i personaggi che prendono parte alla vicenda ritroviamo lo stesso Alexander Pope, il “rospo gibbuto”, che grazie alla sua forza d’animo attira immediatamente le simpatie del lettore. I difetti fisici del poeta vengono ben presto dimenticati: la totale mancanza di avvenenza, il colorito malaticcio, la schiena ricurva non sono più importanti; il lettore, totalmente assorbito e ammaliato dalla sua arguzia, dalla sua voglia di vivere, dalla sua vivacità intellettuale, si trova immediatamente a desiderare che egli possa ottenere quanto prima la fama, la ricchezza e l’amore di Teresa Blount a cui aspira così ardentemente. Teresa e la sorella minore Martha sono cugine della donna più desiderata di Londra, la famosa Arabella Fermor. Martha, una ragazza semplice e dotata di buon senso, è segretamente innamorato di Alexander Pope. Teresa, bella e impertinente, non possiede purtroppo le buone qualità della sorella, è una ragazza superficiale, ammira e invidia lo stile di vita della cugina Arabella e, nonostante sappia di essere priva di dote, aspira ugualmente ad un matrimonio al di sopra delle proprie possibilità. Amata da Pope, nutre per lui sentimenti di semplice stima ed affetto; da donna superficiale qual è, al contrario di Martha, guardando il poeta vede solo un uomo dallo sgradevole aspetto fisico.
Se dovessi definire il romanzo della Gee con un solo aggettivo credo lo definirei un romanzo “indeciso”. L’idea di prendere spunto dall’opera di Pope per la trama è davvero originale ed interessante, ma per il resto tutto sembra troppo abbozzato. E’ vero l’ambientazione storica, la descrizione delle feste, degli abiti, dei luoghi, della vita dell’epoca è dettagliata e precisa, ma la caratterizzazione dei personaggi è troppo superficiale, non c’è alcun approfondimento psicologico. È un libro che promette molto e mantiene poco. Possiede in sé un grande potenziale purtroppo inespresso: sembra, infatti, che Sophie Gee abbia fretta di concludere la storia, accenna tutto senza indagare nel dettaglio i rapporti interpersonali tra i personaggi, le motivazioni che li spingono ad agire in un modo piuttosto che in un altro e anche l’idea della congiura Giacobita a cui prende parte Lord Petre che potrebbe essere un capitolo importante del romanzo, si riduce alla fine ad uno sterile racconto privo di sostanza...
Con questo non voglio dire che “Lo scandalo della stagione” sia un libro illeggibile, scritto male; anzi in realtà l’ho trovato un libro scorrevole e piacevole. La delusione consiste nel fatto che avrebbe potuto essere un bellissimo romanzo storico e purtroppo il risultato è una lettura poco impegnativa, un libro “da leggere sotto l’ ombrellone”.
Devo comunque riconosce che l’autrice ha davvero una vasta conoscenza dell’epoca storica di cui parla e soprattutto con questo romanzo ha avuto il grande merito di incuriosire il lettore ed invogliarlo a leggere ”Il ricciolo rapito” di Pope.