domenica 13 ottobre 2013

“Brevi monologhi in una sala da ballo di fine Ottocento” di Alessandra Paoloni

Brevi monologhi in una sala
da ballo di fine Ottocento
di Alessandra Paoloni
formato Kindle
Nonostante il titolo imponente che farebbe pensare ad un tomo particolarmente sostanzioso, “Brevi monologhi in una sala da ballo di fine Ottocento” è in realtà un libretto di pochissime pagine, circa un centinaio.

Chi mi conosce sa che non amo particolarmente il formato e-book. Questa volta però mi sono lasciata tentare dal titolo davvero intrigante del libro d’esordio dell’autrice e, con mia grande sorpresa, mi sono ritrovata a leggere un’operetta in versi davvero interessante.

Alessandra Paoloni, come lei stessa racconta nella nota introduttiva, ha tratto ispirazione per questo libro dalla lettura de “L’antologia di Spoon River” una raccolta di poesie, opera di Edgar Lee Masters, pubblicate tra 1914 ed il 1915. 
Scritte sotto forma di epitaffio le poesie del poeta americano raccontano la vita di alcune persone sepolte nel cimitero di un piccolo paesino immaginario della provincia americana.
Inutile dire che ora sono davvero curiosa di leggere anche il libro di Edgar Lee Masters che ho già provveduto prontamente ad inserire nella lista dei prossimi acquisti.

In “Brevi monologhi in una sala da ballo di fine Ottocento” sono gli stessi invitati al ballo a dialogare con il proprio io. In sostanza ogni poesia consiste in una serie di brevi considerazioni tra sé e sé da parte dei diversi protagonisti della storia che, terminato il proprio monologo, introducono il personaggio successivo.
Sfilano dinnanzi a noi uomini e donne di ogni età, un vero e proprio corteo di vizi e virtù dell’essere umano: facciamo conoscenza con giovani prossime al matrimonio, mogli, figlie, fidanzate e amanti…incontriamo artisti, poeti, uomini anziani con giovani mogli al seguito, dandy…
Ogni inviato porta infatti sulla scena ansie, paure, desideri inconfessati, sentimenti non corrisposti, voglia di libertà ed evasione…

In poche pagine Alessandra Paoloni riesce a regalarci un quadro dettagliato di un mondo dove l’ipocrisia e il perbenismo regnano sovrani. Ascoltando i pensieri di ogni personaggio riusciamo a cogliere perfettamente l’estenuante lotta tra la voglia di essere e l’importanza di apparire, un conflitto che ha interessato l’uomo in ogni epoca e che ancora oggi è di estrema attualità.
Tutti indossano una maschera per sottrarre il proprio vero io agli sguardi indiscreti ed indagatori degli altri, ma nessuno però può sottrarsi dal giudicare e ancor meno dall’essere giudicato dal prossimo.

La scrittura di Alessandra Paoloni è elegante, scorrevole ed essenziale. Ogni parola è pensata e perfetta. I suoi versi sono degni dei più famosi poeti dell’Ottocento e ad essere sinceri, il lettore potrebbe essere facilmente ingannato sulla datazione dell’opera se non fosse già a conoscenza del fatto che Alessandra Paoloni è un’autrice contemporanea.

“Brevi monologhi in una sala da ballo di fine Ottocento” può essere definito tranquillamente una piccola perla. Assolutamente da leggere.



sabato 5 ottobre 2013

“L’isola dei due mondi” di Geraldine Brooks


L’ISOLA DEI DUE MONDI
di Geraldine Brooks
BEAT
Edizione originale NERI POZZA
La storia si svolge nell’America Settentrionale del XVII secolo, stessa epoca ed ambientazione di un altro più celebre romanzo ovvero “La lettera scarlatta” di Nathaniel Hawthorne di cui vi ho parlato non molto tempo fa. E’ stato proprio questo collegamento tra i due libri che mi ha spinta a leggere il romanzo di Geraldine Brooks.
Vi anticipo subito che la differenza più evidente è il tipo di scrittura, Hawthorne è un autore dell’Ottocento ed indubbiamente il suo stile narrativo è più lento, distaccato e concedetemi il termine più pedante. Lo stile narrativo di Geraldine Brooks nonostante sia molto descrittivo, soprattutto quando si sofferma sulle caratteristiche dell’isola e della sua natura incontaminata, è uno stile più fresco, immediato e scorrevole. 

Protagonista de “L’isola dei due mondi” è Bethia Mayfield, figlia del pastore dell’isola di Martha’s Vineyard. La storia del romanzo viene raccontata in prima persona, sotto forma di memoires, proprio da questa ragazzina che rimasta orfana di madre in giovane età è costretta fin da giovanissima ad occuparsi della casa, del padre, del fratello maggiore e della sorellina più piccola.
Bethia è determinata, intelligente e piena di vita e, sebbene timorata di Dio, mal sopporta le regole imposte dalla comunità puritana. Più di ogni altra cosa non riesce ad accettare il fatto che, in quanto donna, le siano precluse cultura ed istruzione.
Durante una delle sue solitarie esplorazioni dell’isola, Bethia conosce Caleb, figlio del capo indiano e nipote dello sciamano della tribù dei Wampanoag. Tra i due nasce un forte legame di amicizia che si rinsalderà quando Caleb verrà accolto nella casa del padre della ragazza per dargli quei primi rudimenti di latino, greco ed ebraico che permetteranno al ragazzo indigeno di intraprendere il corso di studi che lo porterà al conseguimento della laurea nell’università di Harvard.
L’amicizia tra Caleb e Bethia è l’incontro di due civiltà e due religioni diametralmente opposte. Il popolo di Caleb è un popolo libero e primitivo, che non conosce il significato della parola peccato e che adora le divinità del cielo e della terra. La comunità puritana è una comunità repressa, ossessionata dalle regole e dalla religione, dove ogni emozione ed affettività vengono soffocate.

Il racconto che, come l’autrice tiene a precisare nella sua nota al termine del libro, è opera di pura fantasia è in realtà ispirato ad una storia vera.
Caleb fu veramente il primo nativo americano a laurearsi ad Harvard, purtroppo però le fonti storiche al riguardo sono davvero scarse per avere ulteriori dettagli sulla sua breve e sfortunata vita.

“L’isola dei due mondi” è un bellissimo romanzo, intenso ed emozionante, che parla di amicizia e libertà, di emancipazione e pregiudizi.
Un libro che ci racconta di un mondo ancestrale e di un popolo libero e fiero costretto a sottomettersi e a soccombere per la propria stessa sopravvivenza.


domenica 29 settembre 2013

“Caffè Babilonia” di Marsha Mehran

CAFFE’ BABILONIA
di Marsha Mehran
BEAT
Edizione originale Neri Pozza
“Caffè Babilonia” (titolo originale “Pomegranate Soup”) è la storia di tre ragazze persiane: Marjan, Bahar e Layla che, fuggite dalla repressione politica in Iran all’inizio della rivoluzione khomeinista, riescono a raggiungere, grazie all’aiuto di alcune associazioni umanitarie, l’Inghilterra.
Dopo i primi anni trascorsi a Londra, decidono per motivi che verranno poi svelati nel corso del racconto, di trasferirsi a Ballinacroagh.
Qui, in questo piccolo villaggio dell’Irlanda occidentale, con il suo paesaggio da cartolina, dove i turisti vengono per onorare San Patrizio, le sorelle Aminpour possono finalmente lasciarsi il passato alle spalle e ricominciare a vivere.
Inevitabilmente, in un villaggio dove i giorni scorrono sempre uguali, pigri e lenti, dove tutti si conoscono l’arrivo delle tre ragazze iraniane getta lo scompiglio nelle vite tranquille degli abitanti.
Le sorelle Aminpour prendono in affitto da Estelle Delmonico, la vedova di un pasticciere e fornaio italiano, il vecchio negozio del marito per aprire un locale tutto loro: il Caffè Babilona. Le ragazze ignorano però che proprio sullo stesso negozio aveva già messo gli occhi, ormai da anni, Thomas McGuire il boss del villaggio nonché proprietario di diversi pub della zona, un uomo dispotico e violento.
A complicare ulteriormente la situazione sarà poi la storia d’amore che nascerà tra la più giovane delle sorelle, l’affascinante Layla ed il sensibile Malachy McGuire, figlio proprio del loro peggiore nemico.

Marjan aveva un effetto magico sia sugli uomini che sulle donne in un modo più pratico, ma non meno affascinante. Con le sue ricette spingeva le persone verso imprese che prima parevano impossibili: bastava un assaggio delle sue pietanze e la gente cominciava non solo a sognare, ma a prendere in considerazione la possibilità di agire.

Ogni capitolo del libro è introdotto da una ricetta poi preparata nel corso del capitolo stesso; ogni piatto è lo spunto per ricordare momenti dolorosi, per esprimere speranza per il futuro, per suggerire rimedi per il cuore e per la mente o a volte più semplicemente per curare piccoli disturbi come l’emicrania.
I profumi orientali delle spezie: della curcuma, dello zafferano e del cumino, solo per citarne alcune, si sprigionano dalle pagine del libro accompagnandovi nella lettura e instillando in voi pagina dopo pagina il desiderio di provare a cucinare ogni singola ricetta.

Il romanzo di Marsha Mehran che ricorda per alcuni aspetti della trama un altro romanzo ovvero “Chocolat” di Joanne Harris, è un libro che affronta anche tematiche importanti quali l’integrazione razziale ed i conflitti politico-religiosi, senza tralasciare però di porre l’accento sui veri valori della vita ovvero l’amore, l’amicizia e la solidarietà.

La scrittrice ha tratteggiato perfettamente il carattere di tutti i personaggi che ruotano intorno alle tre protagoniste, accennando anche per la maggior parte di essi al loro “vissuto” prima di entrare a fare parte della nostra storia.
Marsha Mehran è stata davvero abile a ricostruire un affresco corale di una tipica società di paese, chiusa e sospettosa, in grado però al momento giusto di trovare la giusta determinazione e la forza per aprirsi al mondo ed alle novità.

“Caffè Babilonia” è una lettura scorrevole, semplice e piacevole. Credo però che la vera forza di questo romanzo stia principalmente nella capacità della Mehran di affrontare tutti gli argomenti, anche quelli più cruenti quali gli orrori della guerra, in modo aggraziato, senza mai indulgere nella descrizione della violenza più di quanto sia necessario al lettore per comprendere la reale drammaticità della situazione.

In un mondo dove ogni giorno ci vengono continuamente imposti racconti di brutalità e violenza non solo dalle tv, ma spesso purtroppo anche dalla stessa letteratura, è davvero apprezzabile la scelta di Marsha Mehran di dare al suo romanzo un taglio così delicato.


  

lunedì 23 settembre 2013

“La meraviglia della vita” di Michael Kumpfmüller

LA MERAVIGLIA DELLA VITA
di Michael Kumpfmüller
NERI POZZA
Müritz, luglio 1923. Franz Kafka è ospite della sorella Elli nella casa presa in affitto per le vacanze estive. Il celebre scrittore, affetto da tubercolosi e reduce da vari ricoveri in sanatorio, spera di trarre giovamento dal soggiorno nella località turistica sul Mar Baltico.

Qui “il Dottore” conosce Dora Diamant, una giovane ebrea ortodossa, che lavora nella colonia estiva di Müritz per i bambini ebrei.
Tra i due è amore a prima vista e, nonostante i problemi di salute di lui e la differenza d’età (Franz ha 40 anni e Dora solo 25), decidono di vivere questo forte sentimento che li lega.
Si trasferiscono a Berlino, dove lo scrittore prende in affitto una stanza e la ragazza si trasferisce quasi subito da lui.
Da sottolineare che per l’epoca, quella di convivere senza essere sposati, fu una scelta decisamente coraggiosa.
Vivere a Berlino si rivela più complicato del previsto: l’inflazione è alle stelle, il cambio di un dollaro si aggira su un milione di marchi, il denaro non basta mai e la salute di Kafka continua a peggiorare.
Dora e il Dottore cercano di fare del loro meglio per isolarsi da tutto e da tutti, di vivere la loro storia giorno per giorno, senza fare progetti a lungo termine consapevoli del fatto che, per loro, il tempo a disposizione è davvero limitato.
Non ne parlano mai, loro sanno ma tacciono, fanno finta di credere che la malattia possa scomparire, che lo scrittore possa guarire e che il miracolo possa accadere.
Gli ultimi mesi sono costretti a trasferirsi a Kierling, vicino a Vienna, dove lo scrittore viene ricoverato nel sanatorio locale e dove nel giugno del 1924 spirerà tra le braccia della donna amata.

Nella vita di Franz Kafka, prima dell’incontro di Müritz, c’erano state due donne molto importanti: Felice Bauer, con la quale romperà il fidanzamento, e Milena Jesenská, una donna sposata e per nulla intenzionata a lasciare il marito.
A differenza dei precedenti rapporti, Kafka troverà con Dora, non solo l’amore ma anche la stabilità e la serenità, sebbene costretto a rompere con Praga e la sua famiglia per poter vivere liberamente questa passione.

Nonostante l’apparenza “La meraviglia della vita” non lo si può definire un romanzo triste. Il messaggio che trasmette è un messaggio di speranza: la vita merita di essere sempre vissuta, perché ogni cosa è possibile, in ogni momento potrebbe accadere qualcosa di bello e spesso non sarebbe possibile ritrovarsi a vivere certe emozioni se non ci fossero stati precedentemente eventi contrari.
I percorsi dell’esistenza sono tortuosi e insondabili, spesso avversi, ma nel bene come nel male la vita ci sorprende sempre con la sua imprevedibilità.

“La meraviglia della vita” è un romanzo malinconico, questo sì. Kumpfmüller, attraverso una scrittura evocativa che scorre lenta e piana, come se la storia ci venisse sussurrata nel silenzio, ci racconta una bella storia d’amore, struggente e sofferta.
Una storia che ricorda gli amori di altri tempi, gli amori romantici dell’Ottocento come quello di John Keats e Fanny Brawne anch’essi divisi dalla malattia di lui, una malattia che non perdona.

Kumpfmüller è bravissimo a ricostruire una storia di cui purtroppo non è rimasto alcuna traccia tangibile. Tutta la corrispondenza tra i due amanti è andata perduta, confiscata nell’agosto del 1933 insieme ad altri scritti dello scrittore, quando la casa di Dora fu perquisita dalla Gestapo. 

Attraverso le pagine di questo libro facciamo la conoscenza con personaggi vicini a Kafka, come gli amici più intimi, Robert Klopstock e Max Brod; le sue sorelle, in particolare l’amata Ottla e la protettiva Elli; leggiamo del difficile rapporto che lo scrittore aveva con il padre…
Tutto questo fa de “La meraviglia della vita” una biografia romanzata curata e ben scritta dell’ultimo anno di vita dello scrittore praghese, che ci svela nuovi aspetti del carattere di Franz Kafka e ce ne ricorda nel contempo quelli più conosciuti.

domenica 15 settembre 2013

“I privilegiati” di Jonathan Dee

I PRIVILEGIATI
di Jonathan Dee
BEAT
Edizione originale NERI POZZA
Adam e Cynthia sono belli, giovani e rampanti; lui sempre attivo, detesta i tempi morti ed è un maniaco della forma fisica, lei vanitosa e sicura di sé è una di quelle persone che non crolla se le cose non vanno alla perfezione.

Decidono di sposarsi prima di tutti i loro amici, non vogliono aspettare, hanno ben chiari i loro obiettivi e sanno di essere fatti l’uno per l’altra.

(…) essere il rifugio sicuro l’uno dell’altra, è questo che ti fa capire di aver trovato ciò di cui tutti lamentano l’assenza.

Il romanzo inizia proprio dal racconto del loro matrimonio. Due ragazzi appena ventiduenni che scalpitano per lasciarsi alle spalle il loro vissuto e soprattutto le loro famiglie fatte di persone “normali”.
Adam e Cynthia quasi si vergognano delle loro “umili” origini, vogliono gettarsi al più presto nella mischia, fare soldi e avere successo.

Ogni scelta, ogni azione nella loro vita è proiettata verso il futuro perché ogni attimo nel momento in cui lo si vive è già passato. E’ necessario guardare sempre avanti, mai voltarsi indietro negli affetti come nel lavoro perché il rischio di essere risucchiati dai ricordi è troppo grande.

Subito dopo il loro matrimonio si trasferiscono a New York, Adam lavora nel mondo dell’alta finanza, sotto l’ala protettiva di un capo che lo adora e per il quale invece lui prova solo disgusto, sfrutta il momento e compie speculazioni illecite in borsa, approfittando di informazioni riservate, per arrotondare le entrate familiari; Cynthia resta a casa ad occuparsi dei figli, April e Jonas, ovviamente due bambini bellissimi e viziati.

La storia si svolge in un arco di tempo di circa 20 anni, alla fine del romanzo i ragazzi hanno più o meno l’età dei genitori all’epoca del loro matrimonio.
Il libro è in sostanza la storia di una famiglia, una famiglia di privilegiati, come li definisce il titolo stesso.

Quello di Dee è un romanzo originale nel suo genere, infatti, anche se la trama è piuttosto ovvia, il modo in cui lo scrittore racconta la storia non lo è affatto.
Romanzi di questo genere tendono a diventare solitamente un susseguirsi di tradimenti e di lamentele e recriminazioni da parte di gente ricca e insoddisfatta.
I protagonisti de “I privilegiati” invece sono persone “vere”. Reale è la crisi di Cynthia colta dall’ansia di essere diventata una di quelle mogli ricche che hanno come unico scopo nella vita accudire i figli e andare in palestra, costretta ad osservare giorno dopo giorno l’inarrestabile decadimento del proprio corpo. Così come appartiene al mondo reale il desiderio di Adam di proteggere la propria famiglia da ogni eventuale incertezza economica a costo di sacrificare a questo scopo ogni scrupolo etico.

Non esisteva niente di sbagliato, se non quello che lo era negli occhi di lei.

Jonathan Dee non esprime alcun giudizio morale nei confronti dei suoi personaggi, lo scrittore si limita a raccontarci la loro storia, una storia comune a molti “nuovi ricchi”.
Dee pone l’accento sul fatto che i protagonisti del suo romanzo non vogliano accumulare ricchezza per il solo piacere di farlo, ma per mettersi al riparo da eventuali rovesci di fortuna. La povertà fa paura.

(…) la questione non era il bisogno, era il desiderio di sentirsi al sicuro a questo mondo.

Quello che potevi aver fatto il giorno prima non significava nulla: l’istante in cui smettevi di valutare ciò che avevi costruito aveva inizio la rovina.

Il ritmo del romanzo è incalzante, coinvolgete, carico di suspense; alcune pagine sembrano appartenere quasi ad un romanzo thriller per come lo scrittore riesce a tenere il lettore con il fiato sospeso.
Il finale è un finale aperto, potrebbe essere la rovina o la salvezza per tutti i personaggi o forse solo alcuni di loro potrebbero riscattarsi.
Ogni protagonista del romanzo ha intrapreso un proprio percorso di autoanalisi psicologica e resta da scoprire dove questo li condurrà.
Al lettore rimane comunque la speranza di salvezza e redenzione per tutti quanti.


lunedì 9 settembre 2013

“Ai piani bassi” di Margaret Powell (1907 – 1984)

AI PIANI BASSI
di Margaret Powell
EINAUDI
“Ai piani bassi” (titolo originale “Below stairs”) è un romanzo autobiografico che fu pubblicato per la prima volta nel 1968 ottenendo un discreto successo e vendendo 14.000 copie nel primo anno.

Julian Fellowes, l’autore di Downton Abbey, si è ispirato alle pagine di questo libro per la sceneggiatura della serie televisiva e, grazie al successo di pubblico ottenuto, la casa editrice Einaudi ha deciso nel 2012 di pubblicare il romanzo in edizione italiana.  

Non fatevi però trarre in inganno dalla copertina che riporta l’immagine di Highclere Castle (la dimora che da milioni di telespettatori è conosciuta con il nome di Downton Abbey) nel libro, infatti, non ci sono riferimenti diretti alla residenza dei Conti di Carnarvon.
La scrittrice lavorò per diverse famiglie di varia estrazione sociale ma mai per i proprietari di Highclere Castle.

Margaret Powell, seconda di sette figli, nasce nel 1907 a Hove, una cittadina del Sussex. La sua è una famiglia povera, il padre è imbianchino e la madre lavora come donna delle pulizie. Nonostante una borsa di studio per la grammar school, Margaret Langley (questo il suo cognome da nubile) è costretta ad andare a servizio poiché i genitori non possono permettersi di mantenerla fino al termine dell’iter scolastico per diventare insegnante.

La Powell nella sua autobiografia ci racconta dettagliatamente le sue esperienze lavorative negli anni Venti e Trenta prima come sguattera, il gradino più basso della servitù, e poi come cuoca, fino al giorno del suo matrimonio.

Quando Margaret sposa Mr Powell, di professione lattaio, inizia la seconda fase della sua vita come casalinga e madre di tre bambini.
I primi anni non sono semplicissimi, ci sono periodi duri anche nella vita matrimoniale, i soldi non bastano mai e quando, durante la Seconda Guerra Mondiale il marito viene arruolato, la sua situazione economica peggiora ulteriormente.
Margaret però è una donna forte e determinata che riesce a superare ogni difficoltà senza mai scoraggiarsi.

Attraverso una scrittura semplice e diretta la Powell ci descrive un mondo nettamente diviso in due: “Noi e Loro”.
Fin da ragazzina è stata costretta a fare i conti con la differenza sociale tra “noi” cioè la servitù, coloro che abitavano i piani bassi e “loro” ovvero i datori di lavoro che spesso si comportavano da veri padroni nei confronti dei dipendenti, come se la schiavitù non fosse mai stata abolita.

I ricchi aristocratici non riuscivano a capire i loro “servi” e li consideravano un male necessario. Si curavano solo ed esclusivamente del loro benessere “morale” mai di quello “fisico” e si stupivano se, come nel caso di Margaret Powell, leggevano libri di autori quali Dickens e Conrad. Per loro i domestici erano semplicemente esseri inferiori, privi di morale e con poca voglia di lavorare.
C’erano è vero alcuni datori di lavoro più ben disposti di altri, come ci racconta la Powell, ma nessuno provava “amore” per i propri domestici né li comprendeva.

Nel corso degli anni, da quando Margaret Powell entra a servizio all’età di 14 anni, lentamente le cose si trasformano: gli strumenti del mestiere diventano più moderni facilitando il lavoro e i domestici iniziano a far valere i propri diritti rivendicando la propria dignità come persone e come lavoratori.

“Ai piani bassi” è’ un libro coinvolgente, ironico e divertente. La Powell riesce a raccontarci esperienze di vita difficili e problematiche facendoci ugualmente sorridere perché lo fa sempre in modo leggero, con il sorriso sulle labbra e senza mai abbandonarsi all’amarezza.


domenica 8 settembre 2013

“Lady Almina e la vera storia di Downton Abbey” di Lady Fiona Carnarvon

LADY ALMINA
E
LA VERA STORIA DI DOWNTON ABBEY
di Lady Fiona Carnarvon
ANTONIO VALLARDI EDITORE
Vi anticipo subito che non sono una fan accanita del period drama Downton Abbey del quale, lo confesso, ho visto per ora solo la prima serie e parte della seconda.
Da appassionata di antiche dimore devo ammettere però che, pur non essendo stata particolarmente affascinata dalla trama della serie tv, sono stata ammaliata dall’ambientazione e dallo stile di vita che si conduceva all’interno del castello.

E allora perché non approfondire l’argomento?

 “Lady Almina e la vera storia di Downton Abbey” è la storia della moglie del V Conte di Carnarvon e di Highclere Castle, il bellissimo castello che milioni di telespettatori conoscono con il nome di Downton Abbey.

Almina Wombwell, figlia illegittima di Alfred de Rothschild, nonostante le sue discutibili origini ma proprio grazie all’ingente patrimonio paterno, fece un riuscitissimo matrimonio. 
Appena diciannovenne nel 1895, infatti, sposò il V Conte di Carnarvon e per merito della sua dote riuscì a saldare i consistenti debiti del marito e a salvare dalla rovina Highclere Castle.
Fu un matrimonio d’amore e d’interesse; Almina era una bella donna oltre che ricca e il Conte un uomo molto affascinante, la loro fu quindi un’unione perfetta sotto ogni aspetto.

La storia raccontata da Lady Fiona, autrice del libro e VIII Contessa di Carnarvon non è esclusivamente la storia di Lady Almina e della sua nuova famiglia ma anche quella della servitù che abitava i cosiddetti “piani bassi”.
Highclere Castle non era solo la residenza dei Conti di Carnarvon ma era piuttosto una struttura, giustamente paragonata da Lady Fiona ad una nave per come veniva gestita, nella quale ognuno doveva svolgere attentamente il proprio ruolo per la continuità ed il rispetto delle tradizioni.

Lady Almina ha ispirato il personaggio di Lady Cora in Downton Abbey ma la sua vita è stata in realtà più appassionante di quella del suo alter ego televisivo.
E’ vero che Fiona Carnarvon potrebbe, in quanto coinvolta, aver dato un taglio agiografico al racconto ma alcuni dati storici sono irrefutabili come l’impegno della Contessa durante la Grande Guerra che la vide trasformare Highclere Castle in un ospedale all’avanguardia per la cura dei reduci dal fronte.
Inoltre come non appassionarsi agli scavi archeologi condotti e finanziati dal V Conte di Carnarvon in Egitto? Ebbene sì, fu proprio lui insieme a Howard Carter colui che scoprì il tesoro e la tomba di Tutankhamon.

Il libro è corredato da un’ampia documentazione fotografica e riporta anche copia dei documenti e delle lettere prova di un’accurata ricerca condotta dall’autrice.

Gli anni in cui si svolgono i fatti del libro vanno dall’ultimo periodo vittoriano al regno di Giorgio V; Lady Almina ed il marito assistettero a ben due incoronazioni, quella di Edoardo VII e quella dello stesso Giorgio V.

Attraverso la storia dei Conti di Carnarvon vengono raccontati avvenimenti storici importanti; molte pagine sono dedicate alla Grande Guerra ma interessanti sono anche quelle dedicate al racconto delle campagne di scavo in Egitto con particolare attenzione a riferire le metodologie usate, gli elevati costi delle operazioni e le difficoltà di ottenere permessi e concessioni.

Leggendo le pagine di “Lady Almina e la vera storia di Downton Abbey” scoprirete la società dell’epoca, prenderete parte ad importanti eventi quali incoronazioni, ricevimenti, cerimonie e balli; conoscerete le liste degli invitati e i menù che venivano serviti.

Insomma sia che siate innamorati della serie tv o semplicemente appassionati di storia, questo libro vi incanterà con tutto il fascino di un’epoca passata.